LO STEMMA Alla Base dello stemma, a rievocare le radici del paese, è posizionata l’aquila a due teste, simbolo dei popoli arbresch. Centralmente, su fondo azzurro adornato da tre stelle d’oro simboleggiando sublimità di idee, nonché le tre virtù morali : Giustizia Fortezza e Temperanza, svetta preponderante, colorata di ocra, la torre campanaria, elemento architettonico caratterizzante e rappresentativo della comunità. Vengono altresì tratteggiati in verde gli inconfondibili lineamenti morfologici di uno dei rilievi più singolari del territorio. Lo stemma è racchiuso fra un ramoscello di alloro e uno di quercia legati da un nastro tricolore ed è cimato dalla corona turrita, simboli esterni di Comune.”
STORIA
La storia di Pallagorio è nota solo per sommi capi, fatto, questo, dovuto sia alla naturale trascuratezza della sua popolazione, sia perché molti documenti storici sono andati perduti nel 1945, in seguito ad un incendio appiccato al comune alla fine del periodo fascista, quasi a voler esorcizzare un passato di cui, in qualche modo, ci si vergognava. Le tradizioni storiche, quindi, vanno cercate più nella memoria storica popolare che nei documenti. Pallagorio confina a Nord con Campana e Umbriatico, a Est con Carfizzi e San Nicola, a Sud con Casabona e la sua frazione Zinga, e a Ovest con Verzino (in particolare con il fiume Vitravo).
Nel 1453, si segnalano i primi insediamenti albanesi nel casale di “S. Giovanni in Pallagorio”, casale di campagna dei principi di Umbriatico. Probabilmente, questi primi insediamenti, sono da localizzare nella zona attualmente denominata Valle. A detta di alcuni tali insediamenti si ebbero in prossimità di costruzioni già esistenti, se non sulle stesse rovine di un antico borgo. A sostegno di questa tesi, si fa derivare il nome Pallagorio, dalle parole greche “Palaios Chorion” che significano “Regione Antica” con evidente riferimento alle costruzioni già esistenti. Altri però fanno derivare il nome albanese di Pallagorio (Puheriu), da “Puhe e rì” (Nuova Puhe) con riferimento ad una città dell'Albania che aveva questo nome. Altri ancora fanno derivare questo nome dall’espressione albanese “Pucciur e riut”, “Baciata dal vento”, con riferimento alla posizione geografica favorevole. Dagli studi fatti e dai ritrovamenti archeologici, soprattutto ad opera di Ofelia Giudicissi, la prima versione ci sembra più accreditata. La stessa toponomastica dei luoghi intorno a Pallagorio, testimonierebbe che questi insediamenti sono poco più che una leggenda. Secondo la memoria storica popolare, il primo insediamento di Albanesi a Pallagorio, sarebbe avvenuto in seguito all'aiuto dato dai pallagoresi al principe di Umbriatico nella guerra contro il feudatario di Campana. Testimonianza di questo, è un arco nel centro storico del paese. In ogni caso, dal XVI secolo in poi, gli Albanesi di razza tosca (provenienti dal sud dell'Albania), sono segnalati a Pallagorio. Quasi subito vi fu il passaggio dal rito ortodosso al rito latino, se è vera la notizia riportata da alcuni secondo cui preti di origine Pallagorese, nel sedicesimo secolo, venivano mandati in Albania come missionari per favorirne la latinizzazione. Bisogna fare un salto fino ai giorni nostri per scoprire altre notizie storiche.
Nel 1815, Pallagorio diviene comune autonomo, non più dipendente da Umbriatico. Le successive fasi storiche seguono in tutto e per tutto la storia d'Italia con i vari governi che si sono succeduti. È da segnalare la costruzione del campanile della chiesa del Carmine nella seconda metà del secolo diciannovesimo, e il completamento nel 1859, della chiesa di S. Filomena sorta nel fondo dei Vitetta. Agli inizi del secolo comincia il fenomeno dell’emigrazione, inizialmente verso l'America, e dagli anni '50 in poi, verso le regioni del nord Italia (prevalentemente Toscana) e verso la Germania. Oggi Pallagorio vive la condizione di un tipico paese del sud, con tutte le contraddizioni che questo comporta. “Paese del sud, così ritorto come le tue fiumare”, così la poetessa Ofelia Giudicissi descriveva in una sua poesia Pallagorio. Un paese forse ritorto nella sua realtà sociale, ma che certamente può offrire risorse umane ed ambientali veramente uniche.
Personaggi La storia di un popolo si vive non solo attraverso i fatti, ma anche con la rievocazione di uomini che con le loro azioni e le loro parole, hanno saputo interpretare pienamente l’anima e la spiritualità del sito natio.
Anselmo Lorecchio Nato il 1843 a Pallagorio, visse e operò tra Pallagorio e Roma come giornalista, scrittore e direttore della famosa rivista “La nazione Albanese”, pubblicata negli ultimi anni dell‘800 e anche nei primi anni del ‘900. Fu attivo pioniere del risveglio della nazione albanese (l’Albania divenne nazione indipendente dall’impero Turco Ottomanno il 28 novembre 1912).
Domenico Grillo Su di lui si hanno notizie frammentarie, ma intorno agli anni 20 fu maestro di scherma alla regia accademia militare di Modena, dove gli fu dedicata una via
Ofelia Giudicissi Poetessa vissuta fra Pallagorio e Roma, nata nel 1936 e morta nel 1981. Ha al suo attivo un volume di poesie dal titolo “Pallagorio”. Importante per la storia culturale di Pallagorio, negli anni '70 fondò un club culturale denominato Palaios Chorion, il primo del genere a Pallagorio, avviò scavi archeologici nelle campagne intorno al paese, convinta sostenitrice della ricchezza storica del passato del luogo, da conoscere per costruire un “ricco” futuro.
TRADIZIONI
Festa della Madonna del Carmine La devozione verso la Madonna del Carmine, per noi "la Madonna" per eccellenza ("Shumburia"), ha avuto modo di manifestarsi con gesti liturgici e comportamenti civili, che ormai sono diventati tradizione (patrimonio culturale), che si trasmette da generazioni, anche se con modificazioni intervenute col passare degli anni. Gli anziani ci raccontano come, nella società rurale del passato, la Festa della 2A domenica di maggio assumesse il significato di un evento eccezionale di grande rilievo morale e religioso, che andava preparato sia negli aspetti religio¬si che in quelli civili: all'attesa della Festa, anno dopo anno, veniva data una valenza di rinnovamento religioso e materiale. L'avvicinarsi della festa portava a: 1. Procurarsi vestito nuovo e scarpe nuove da parte di tutti: anziani, giovani e bambini; 2. Sistemazione della casa, che, il più. delle volte, consisteva in una imbiancata di calce; 3. Partecipare alla "novena" e contribuire all'addobbo con paramenti della Chiesa del Carmine; 4. Per le signorine la festa diventava l'occasione per mettersi in evidenza e stabilire rapporti di amicizia o affetivi (come il Leopardi: "la gioventù del loco, tutta vestita a festa, lascia le case e per le vie si spande, e mira ed è mirata; e in cor s'allegra"); 5. Procurarsi "gli spiccioli" per passare bene la festa: i giovanotti, spesso andavano a Casabona a lavorare nelle coltivazioni di barbabietola da zucchero nei giorni immediatamente precedenti; 6. Procurare i generi alimentari per il pranzo festivo, diverso e più lauto rispetto a quello solito. 7. Prepararsi a ricevere parenti e amici, che arrivavano dai paesi vicini.
Organizzazione: L'organizzazione della Festa era sempre sostenuta dal Parroco (si ricordano Don Pasquale, Padre Reginaldo, Padre Antonio, Don Sergio e, ora. Don Pietro) coadiuvato da Comitati cittadini, che si facevano carico della festa civile: la raccolta del denaro e, quando non c'era, del grano che poi veniva venduto e con i soldi si provvedeva al pagamento degli zampognari, della banda musicale, del palco, degli spari, della "parata", e, dopo il 1951, dell'illuminazione. La prima riunione del Comitato si teneva sempre (il 19 marzo) a San Giuseppe. Particolarmente attivo nell'organizzazione è stato "Mastro Peppino Panzarella", coadiuvato dai "mastri" Liberti e Amedeo Spina, da Toscano Antonio, da Don Tommaso Felice e da tanti altri. C'è stato un periodo in cui il Presidente del comitato è stato il Sindaco di Pallagorio, Mario Tassone. Poi, negli anni settanta e lungamente lo è stato Salvatore Licciardi e da 2 anni Nicola Proto. Ogni anno si è riusciti a far fronte alle spese grazie alle offerte spontanee di tutta la popolazione di Pallagorio, a cui si aggiungono le offerte di gente dei paesi vicini e le offerte provenienti dai numerosi pallagoresi emigrati sia in Italia che nei Paesi europei e nelle Americhe, particolarmente devoti verso la Madonne del Carmine. Da anni, da Firenze, arrivano in pullman, tantissimi compaesani per rivivere i momenti magici della "nostra" festa. La festa è stata pure un evento culturale perché, in piazza, a sera, abbiamo potuto conoscere le musiche classiche di Verdi, Puccini, Donizzetti, Cilea e di tanti altri musicisti. A volte ci sono state pure manifestaioni teatrali. Dal 1964, (inizio Tullio Pane), abbiamo avuto numerosi cantanti di musica leggera, anche di rilievo nazionale. Si ricordano, tra gli altri: Mino Reitano, i Dik Dik, l'Equipe 84, i Camaleonti, Little Tony, Bobby Solo, I Ricchi e Poveri, Mia Martini, Peppino Gagliardi, Rosanna Fratello, Dory Ghezzi, Pupo, ecc..
La festa della Madonna incominciava con la processione che durava 2 giorni: il sabato pomeriggio e la domenica mattina. Si girava per tutte le vie del paese insieme alla banda musicale che proveniva dai paesi del circondario ( Carfìzzi, Casabona, San Nicola dell'Alto). Un pò di tempo prima si facevano le pulizie di casa: si imbiancavano i muri con della calce che si procurava a Pallagorio. La calce veniva spalmata con una scopa e si metteva sui muri. Il piatto tipico della festa era la pasta fatta in casa, la carne e i salumi tipici della zona. I dolci tipici erano i taralli fatti con semi d'anice (fishkottet). In piazza c'erano le bancarelle che vendevano bambole di pezza, scarpe, cinture, cestini, dolciumi e altre cianfrusaglie. Il palco dove si esibiva la banda musicale si preparava con dei fusti, sopra i quali venivano mese tavole di legno e veniva abbellito con dei rami di oleandro e nei primi tempi il teatro e, poi, i cantanti, solamente nel dopoguerra. I fuochi pirotecnici venivano fatti di fronte alla porta della Chiesa del.Carmine. Per le persone povere, che non avevano i soldi da dare alla Madonna, c'era un uomo che girava e raccoglieva una quantità di grano che veniva vénduta e con il guadagno si pagavano le spese. Il venerdì dela Madonna giravano per il paese gli zampognari che in dialetto venivano detti "ciaramellari", i quali suonavano.
13 November, 2008
Buon giorno Eugenio, era un po' che volevo madare questo delucidazione spero sul nome di Pallagorio/Puheriu.
Vi scrivo per un cenno sulla mai risolta (e forse irrisolvibile) storia dell'etimologia di Puheriu/Pallagorio che anche voi riportate sul sito nella sezione Storia di Pallagorio. Premetto che non sono un filologo, ma ho a che fare con le “parole” solamente a causa dei mie studi filosofici. Da un paio d'anni sto cercando di ricostruire la valenza etimologica di alcuni termi della filosofia antica e moderna. Inoltre ho avuto la fortuna di conoscere un filologo di Scandicci, la città in cui lavoro, che sta facendo una decennale ricerca sulle etimolgie dei toponomi arabi nel sud Italia e di striscio (spinto anche da me) ha ricercato anche quelli arbereschi. Inoltre per puro caso il mio cognome, Medea, mi ha dato una piccola curiosità su questa storia del nome Puherese............
Veniamo al dunque: le etimologie sul nomePallagorio, riportate sui siti e testi istituzinali, probaìbili o meno, le conosciamo tutti. Quella di “Palaios Chorion” che significa “Regione/paese Antico” possiamo dirla “romantica”, sa di etimologia vichiana, come si faceva una volta, nella filologia pre-Semeraro in cui il greco domina dimenticando la fenicia e l'oriente etc. Quindi teniamocela così come dato che fa anche scena per quanto sia improbabile. Nel vostro sito dite anche: “La stessa toponomastica dei luoghi intorno a Pallagorio, testimonierebbe che questi insediamenti sono poco più che una leggenda.”, questo non è del tutto esatto poiché Strabone parla di una Kona, riportata in tutti gli atlanti storici (anche un semplice DeAgostini da Lieceo), e la localizza “dietro il monte di Krimissa(Cirò)”, il nostro monte Pomillo potrebbe essere il monte di Cirò? Non saprei dire, ci vorrebvbe una ricerca storica su questo. Fatto sta che gli atlanti storici la localizzano.
Inoltre un mio insegnate, un archeologo/tombarolo anche, mi dice che spesso è venuto a Pallagorio dal Lauro in poi a “visitare”i reperti archeologici Pallagoresi, seguendo proprio la pista di Kona e dell'oro crotoniate preso secondo lui anche seguendo i Vitravo. La cosa non è molto attendibile ma lui ne ha ricavato un bel po' di reperti, a suo dire......
Finiamo la divagazione. Nel vostro sito riportate giustamente l'etimologia “Puhe e rì” (Nuova Puhe) con riferimento ad una città dell'Albania che aveva questo nome. La notizia è molto importante perchè riscostruita in: Brahaj, Jaho Il primo albanese d’ Italia. Cogit S.p.A. Brindisi (Italia), 1995. Brahai è sottovalutato ma crede in questa etimologia, eppure pochi, quasi nessun sito arberesco lo cita come si addice. Questo mi puzza un po', mi pare quanto meno strano. Brahaj dice che Puke era un borgo albanese e dice pure che era sulla via “Pubblica” che porta verso il mare e verso San Giovanni di Medua o di Medea (ecco il mio cognome che casualmente mi ha fatto destare un po' l'attenzione a quanto vi dico distraendomi dalle etimologie filosofiche). Brahaj crede e lascia un po' pensare che può starci il fatto che albanesi di Puke e albanesi di San Giovanni di Medea (o Medua) abbiano trovato naturale stabilirsi sotto la chiesa di San Giovanni (che già c'era) e chiamare il loro nuovo borgo San Giovanni In Pallagorio incrociando San Giovanni di Medua (o Medea) con la città di (nuova) Puke.
Non essendo né storico né filologo spero che magari qualcuno che abbia studiato queste cose, leggendo questa mia lettera inorridisca (o applauda chi lo sa!) apportando una correzione o integrazione, sempre citando un po' di fonti cosicché se avremmo un po' di tempo e voglia potremmo andarle a verificare, e magari qualcuno in una wikipedia etimologica svelerà il mistero del nome pallagorese, sperando che non resti un enigna, di per sé irrisolvibile. Grazie, Domenico
Giochi:
Giochi popolari
I giochi tradizionali di Pallagorio erano giochi essenzialmente poveri, frutto della creatività dei singoli più che di un'arte vera e propria. Ne presentiamo alcuni che ci sembrano i più significativi.
Il “Gravichiumbo” ( o monta dell'asino) Si gioca in due squadre, una forma una specie di ponte con le schiene, l'altra squadra monta sopra questo ponte. Vince la squadra che resiste di più. La regola principale è che, la squadra che sta sopra, non deve mai toccare con i piedi per terra, almeno finché la squadra che sta sotto non lo decida.
La Mazzarella Ogni giocatore è fornito di due pezzi di legno, uno lungo e uno corto, molto appuntito. Battendo con il legno lungo in due tempi su quello corto, si deve riuscire a lanciare quest'ultimo il più lontano possibile.
Lo Strumbulo Trattasi del diffusissimo gioco della trottola di legno, attorno alla quale si avvolgeva una cordicella e, tirando quest'ultima, la si faceva roteare. C'è da segnalare che in un'economia povera e rustica come quella di Pallagorio, lo strumbulo veniva fabbricato artigianalmente.
Scarvaiet Era il gioco delle cinque pietre diffusissimo in tutto il sud.
LA LINGUA
Poesie di Ofelia Giudicissi
Le poesie di Ofelia Giudicissi esprimono l'intensità dell'esperienza umana e l'appartenenza a questa terra, segno di ogni animo sensibile. Il suo vivo meridionalismo si esprime in grida, quasi di dolore e di bisogno di vita. Abbiamo, per forza di cose, scelto solo alcune delle sue poesie che a noi sembrano le più significative.
Il poeta
Primo freddo di Settembre Un cielo blu-pastoso E una luna metallica a spicchio. Tu dici eternità Ma ti sovrastano I tetti, i rumori più svariati. Ti soffocano i mille e mille Fiati e odori. Allora ti isoli, ti arrampichi Ti fai più sottile, meno preparato Più solo Più poeta che mai.
Sud
Ho abbracciato la quercia Il susino, il ciliegio Il fico e l'acacia. Ho salutato tutti gli alberi In un unico sguardo. Per accendere il fuoco Ho raccolto radici Di ulivo selvatico E rami di pino E per fare felice Il camino, fasci Di ginestre crepitanti.
Calabria
Calabria, terra di lupi e di cani. Io non sono né l'uno e né l'altra. Sono una piccola lepre A cui piacerebbe la sera Giocare con la lune e le erbe. Ma non mi danno spazio. Ballata di novembre
Quando sarà ch'io, vi prego Oh non seppellitemi sulla sporca terra. Legatemi sui rami di un platano se sarò qui Se accadrà altrove stendetemi sulla quercia O sul dolce castagno. Nel tenero cuore aprite un foro: Sia nido di colombi, sull'amarissimo ventre ci si acciambelli Il serpente è nelle vuote orbite crescono i gerani. Così fantoccio dell'eternità. Se ciò non potrà essere, sedetemi nei pressi di un albero: Le braccia legate alle ginocchia E il capo reclino. Salvate il diletto cuore. Conficcatelo All'ultima cima, lo cullino i venti Lo trastulli la pioggia e l'alimenti il sole; E nel tempo viva L'amatissimo L'eletto.
Questa poesia è incisa sulla tomba di Ofelia Giudicissi
Presentiamo alcune poesie di Sergio Spezzano, poeta allievo di Ofelia Giudicissi Curci, che ha al suo attivo due libri pubblicati: “Nuovi Sentieri” (1992) e “D'amore di dolore” (1997). Sacerdote e poeta, Laureato in Filosofia a Cosenza, attualmente vive ed opera a Pallagorio.
Qui furono i giorni Del mio più greve silenzio E come posso Andarmene senza un pianto? Addio, terra del sud, Inaridita come me, E come me scavata nel profondo Da migliaia di fiumi, che altrove Porterebbero vita
Sono assenti questi uomini, Come ombre fugaci. Le loro donne Sono strumenti muti, così curve Le loro schiene nel rito centenario Della raccolta delle ulive. E i colori del Novembre che stendono Un velo che vorrebbe essere D'indicibile gioia sono un trìnos Intonato dal silenzio, senza tema D'interruzione o pausa alcuna. “Paese del sud, così ritorto Come le tue fiumare” ti cantò Una donna che per te viveva. Io per te muoio, e non so ancora Portarti dentro, paese mio.
Ti e pucciur ka diaghi e ka era, Ti cc chiepin ghidh dit e time t mira, Ti gioi te shpirti jim, ti e mir si vera, Ti cc ké ghustr e shpertizz te ata di dora.
Tu baciata dal sole e dal vento, Tu che cuci tutti i miei giorni buoni, Tu gioia al mio spirito, tu buona come il vino, Tu che hai luce e sveltezza in quelle due mani.
Ncic er But bignin c'do fieta Cca chi liss ctu jpara. Osct bucur te vregna nga dita Mo i gjeshur, si mua. Vietami, u e aii, dit p dit Pa cughure, e birmi gno ca gno Ghidh fietat, ghidh cosat cc na boiin T bucura te sit t sesa cat iets. Pra, ccur vignin dit e mira, Lissi ve ntene fietat. Ure io.
Un po' di vento Fa cadere alcune foglie Da questo albero qui davanti. E' bello vederlo ogni giorno Sempre più spoglio, come me Restiamo, giorno per giorno, io e lui Senza colori, e perdiamo uno ad uno Tutte le foglie, tutte le cose che ci rendevano Belli agli occhi neri della vita. Poi, quando vengono i giorni buoni L'albero mette di nuovo le sue foglie. Io no
Il ballo di Costantino (Vagha e Costantinit)
Tipica ballata che simboleggia la fedeltà, si eseguiva su un piazzale in occasione per la festa di matrimonio, comune agli altri paesi di lingua albanese. Databile intorno al 1950.
VAGHA E COSTANTINIT
Lloi, lloi, vasha vaghen Costantini i vogli ish Vet tre dit dondar ish Ghiasht viet te shturit Nond viet te guerriert Pra cc scuatin nond viet I ierdh gn ndarrisch Se e bucura ish 't martoghei
Ish t vuij curor me gn'atr Costantini psheretoj Cai fort psheretoj Ghieghj patruni andè là Sirrit ghidh shurbitoret Shurbitorzet e mir Cush qieu cc psheretoj Prom nat mbiesinat. Se ai qieu Costantini Costantin fidighi jim Cc pate cc psheretoj Prom nat mbiesinat Oi m ierdh gn ndarrish Se bucura ish t martoghej Ish t vuij curor me gn'atr. Costantin biri iim Mir nondin kicc ti Ghap nondin stal ti Mir cal pagumbin Ai i bard si bora Ai cc jichin si era Vuri virghizin e ghiat Capizzinin vuria t'art Ez te catundi iote Ca osht nussa iote Costantin jicu andè Vati pac mo jipara U shcuntarti zotin piac Te cu vete zoti piac Vete t gramissi ieten Se e reia osht t martoghet Occ ve curor me gn'atr Nteghu prapa zoti piac
Se ure iam Costantini Costantini biri iim Ez se i ghien te chisha Vati pac mo jipara Te scuntarti zognen piac Te cu vete zogna piac Vete te granissi ieten Se jime rei osht martoghet Occ ve curor me gn'atr Nteghu prapa zogna piac Se ure iam Costantini Costantini biri iim Jic se i ghien te atari Costantin ru cute iicu E i ghiei te atari E ti zot e ti buiar Nteie prapa cto curor Se ure iam Costantini Costantin fidighi iim Costantin curor e par Ghani e pini mo se vini Se m ierdh Costantini Costantin fidighi iim
IL BALLO DI COSTANTINO
Ballate, ragazze, ballate questo ballo Costantino era il più piccolo Fu fidanzato solo tre giorni Sei anni nell'esercito Nove anni a fare la guerra. Passati nove anni Ebbe un sogno Che la sua bella si stava sposando
Stava scambiando la corona con un altro Costantino sospirò Tanto forte sospirò Che udì il padrone dalla sua casa Chiamò tutti i suoi servitori (dicendo) O Buoni servitori Chi è stato a sospirare Ieri notte a mezzanotte? È stato Costantino Costantino, mio fedele Perché hai sospirato Ieri notte a mezzanotte? Ho avuto un sogno Che la mia bella si stava sposando Stava scambiando la corona con un altro. Costantino, figlio mio Prendi la nona chiave Apri la nona stalla Prendi il cavallo colombino Quello bianco come la neve Quello che corre come il vento Mettigli la briglia lunga La cavezza d'oro Vai nel tuo paese Dove abita la tua ragazza Costantino fuggì di là Andò poco oltre E incontrò il padre Dove vai, padre? Vado a buttarmi da un precipizio Perché mia nuora si sta sposando Sta scambiando corona con un altro. Torna indietro, padre
Perché io sono Costantino Costantino mio figlio Corri, li troverai in chiesa Andò poco oltre E incontrò sua madre Dove vai o madre Vado a gettarmi da un precipizio Perché mia nuora si sta sposando Sta scambiando corona con un altro Torna indietro, madre Perché io sono Costantino Costantino mio figlio Corri che li trovi all'altare Costantino arrivò correndo E li trovò all'altare Tu, nobile Signore Riprenditi la tua corona Perché io sono Costantino Costantino mio fedele Costantino prima corona Mangiate e bevete tutti quanti Perché è tornato Costantino Costantino il mio fedele.
Filastrocche popolari:
Gancella vete e vien cca canaghi Gner cc' ning cciaghet.
L'anfora va e viene dal canale Finché si rompe.
Bora bora candigora Vete nana te guvora Vete ghielli e e pizzughissin Vete dercu e e mbuttissin.
Neve, neve a Candelora La nonna va dentro una fossa Va il gallo e la becca Va il maiale e la spinge. Chirì, chirì, chirì, Chi vuole giocare viene qui Alla rampa, alla rampa E chi more e chi campa E campa lu bumbinellu Nesci tu chi si chiù bellu. Ìa ìa te gargallia
Tessere, tessere al telaio Oppure Vieni vieni al telaio.
DA VISITARE
Le chiese di Pallagorio sono cinque, tre in centro e due in campagna. La prima chiesa, costruita intorno al XVI secolo è S.Giovanni Battista, chiesa a tre navate, purtroppo, attualmente, vittima dell'incuria. Infatti, i preziosi stucchi e le opere in ferro battuto che la adornavano, sono andati perdute in seguito ad un crollo del tetto dopo la famosa nevicata del 1956. La chiesa è stata restaurata nel 1975. Contiene comunque cose sacre “preziose”, come un tabernacolo in marmi policromi del XVI secolo e una statua della Madonna Addolorata di scuola napoletana.
CHIESA DEL CARMINE La Chiesa del Carmine con molta probabilità era un santuario Mariano del XIX secolo, inizialmente paese, poi inglobato nel tessuto urbano. Nella seconda metà del secolo scorso è stata abbellita, e vi è stato aggiunto il campanile che ora domina tutto il paese. La festa patronale della Madonna del Carmine, si svolge ogni anno in questa chiesa, la seconda domenica di maggio. Tale data non è casuale, ma frutto di una tradizione centenaria. La leggenda narra che, proprio nella seconda domenica di maggio, la statua della Madonna del Carmine sarebbe arrivata a Pallagorio trainata da due buoi direttamente dall'Albania, e si sarebbe fermata proprio sullo spiazzo dove sorge l'attuale chiesa. La Chiesa è ad una navata. Un grande arco a sesto acuto, retto da due colonne uguali a quelle dell'altare, delimita la zona del presbiterio. Sui muri laterali si elevano: a destra l'altare dedicato a Santa Rita e a sinistra quello dedicato a S. Anna. Sull'altare centrale sta solenne la statua lignea, settecente¬sca, della Madonna del Carmine. Esso è sormontato da quattro colonne e da uno stucco raffi¬gurante il Padreterno che sorregge il mondo, L'altare fu edificato ad opera della famiglia Lorecchio come ricordava fino a qualche anno fa la scritta: «A devozione di Bernardo Lorecchio 1858» incisa sullo stemma posto alla base dell'altare. La statua rappresenta la Madonna del Monte Carmelo, comunemente detta del Carmine. La devozione per lei è assai sentita e i pallagoresi la pregano per ottenere grazie parti¬colari perché è la loro Regina. Un'antica leggenda racconta come la statua sia arrivata fino a noi. Gli abitanti di un paese vicino avevano ordinato una statua della madonna del Carmine. Alcuni uomini La tra¬sportavano su un carro trainato da due buoi senza giogo. Arrivati ad un certo punto, in un boschetto vicino al nostro paese, il carro si fermò all'improvviso e i buoi come se fossero stati inchio¬dati con gli zoccoli nel terreno, s'impennarono e non si mossero. I custodi della statua frustarono a lungo le bestie ma tutto fu inutile; si pensa che la statua della Madon¬na del Carmine fosse divenuta tan¬to pesante da non far muovere le bestie. Allora, si avanzò l'ipotesi che, forse, la Madonna del Carmine voleva restare proprio lì, in quel posto dove si era fermata. La bellissima statua fu, provviso¬riamente, sistemata in una nicchia costruita proprio per l'occasione.
I Pallagoresi, da allora, venerarono la Madonna del Carmine e a poco a poco le innalzarono una Chiesa che prese il suo nome: «Chiesa del Carmine». Per comprendere appieno il rapporto che i Pallagoresi hanno con lei bisogna rifarsi a due appellativi (albanesi) con cui essi chiamano la Vergine. Ella è chiamata popolarmente «Ajò me 'ccindat» («Quella con i nastri») e anche «Scarciunera», («la vezzosa»). La Chiesa si trova in un posto «strategico», in direzione del mare, così la Madonna può proteggere con gli occhi amorevoli di madre miracolosa i suoi figli albanesi ovunque dispersi e la madre patria: «La cara Albania». Gli anziani del luogo raccontano che la balaustra, situata all' interno della chiesa della Madonna del Carmine, non fu edificata contemporaneamente alla costruzione di essa, ma in epoca successiva. Si presuppone, invece, che le due colonne, tutt'oggi esistenti, siano state realizzate quando fu costruita la chiesa. Dette colonne, a sezione circolare, poggiano su un plinto a pianta quadrata e sono state erette con mattoni di terracotta del luogo; al loro interno è stato inserito qualche elemento in ferro a mo' di cerchiaggio della struttura avente la funzione di resistenza agli sforzi. Tale sig. Astorino Tommaso, benestante in quanto massaro ("Canzunello", nonno di Maria ved. Proto Vincenzo e Luigina ved. Montuoro Giacinto) fece voto alla Madonna del Carmine che qualora il figlio fosse tornato incolume dalla guerra del 1914-18 avrebbe costruito a sue spese una balaustra. Cosi accadde, il figlio tornò salvo dalla guerra ed egli vi radunò il suo bestiame bovino davanti all'ingresso della chiesa, la prima mucca che vi entrò in essa fu venduta e con il ricavato si edificò un impalcato e una balaustra in assito ligneo. Vi era una orditura principale fatta di travi in quercia, incastrate ai muri maestri della chiesa e riposanti sulle due colonne tuttora esistenti. Su queste travi poggiavano i travicelli che sostenevano il tavolato di calpestio consistente in tavole rifinite ad ascia ed inchiodate.
Il parapetto era realizzato con dei montanti ai quali erano inchiodate delle tavole in legno. Per accedere su tale balaustra fu costruita una scala, anch'essa in legno, tutt'ora esistente e funzionanate. Chiaramente col trascorrere degli anni, la suddetta struttura lignea e in special modo il tavolato di calpestio andava man mano a deteriorarsi con il rischio di probabili cadute. Tale motivo, ed un voto esaudito dalla Madonna del Carmine, indusse, nell'anno 1954, il sig. Scarfò Francesco di Nicodemo, impresario edile e non più in vita dal 1960, a porvi rimedio a proprie spese ricostruendo l'intero impalcato e la relativa balaustra e lasciando in opera la scala in legno posta dall' Astorino. Ciò è testimoniato da una scritta ad incisione posta sul fronte basso della balaustra che recita "Balaustra a devozione di Francesco Scarfò". L'impalcato è stato costruito come un normale solaio, con putrelle di ferro, tavelle in laterizio e relativa caldana in cemento senza piastrellatura, mentre al di sotto è stata intonacata con malta bastarda (sabbia, cemento e molta calce). La balaustra è stata concepita come una sequenza di colonnine in cemento, poste ad uguale distanza, dallo stile molto sobrio ed elegante.
CAMPANILE CHIESA DEL CARMINE Merita una menzione particolare il campanile, che si innalza maestoso sul lato nord della chiesa. Esso ricorda nella struttura la torre di Palazzo Vecchio a
Firenze. Fu costruito, in mattoni, intorno al 1900, per interessamento dei Lorecchio con la collaborazione del popolo Pallagorese.
photo-PERRI
CHIESA SANTA FILOMENA La chiesa di S. Filomena è l'unica che ha una datazione precisa. Una lapide al suo interno testimonia che fu terminata nel 1859. Anche questa chiesa ha la sua singolare leggenda. È stata eretta per volontà dei coniugi Vitetta i quali, non avendo figli ed eredi, diedero tutte le loro proprietà alla chiesa di S. Filomena. Nel loro palazzo sarebbe avvenuto un miracolo. La statua di S. Filomena, in assenza dei signori Vitetta, avrebbe risposto ad una donna che cercava la signora, dicendo “Mamma non c'è” . In seguito a questo strano avvenimento fu eretta la chiesa di S. Filomena, e tutte le proprietà dei Vitetta (fra cui anche il loro palazzo, che corrispondeva all'attuale palazzo comunale), furono date alla Chiesa.
foto di E.Perri
CHIESA S. ANTONIO La chiesa di S. Antonio in località Gradea, con molta probabilità residuo di un monastero basiliano, o, ancor più precisamente, l'abside della chiesa antica. Conserva un affresco raffigurante una Madonna con Bambino del XVIII secolo circa. Il martedì dopo Pasqua, vi si celebra la festa di S. Antonio con la benedizione delle campagne, questo giorno diventa occasione per molti pallagoresi di fare un picnic in campagna. La chiesa di S. Cristoforo, che domina il paese ai piedi della località monte Pomillo, è purtroppo ridotta in cattivo stato. Conserva un dipinto del XVIII secolo, raffigurante S. Cristoforo. Anticamente vi si celebrava una festa analoga a quella di S. Antonio in Gradea la prima domenica di giugno.
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CHIESA MADRE O DEL SANTO PATRONO SAN GIOVANNI BATTISTA Facciata a spioventi con timpano e corpi laterali. Vi è una trifora sopra il portale e bifore ai lati, quella di sinistra porta due campane. Il portale è semplice ad architrave con modanature e lesene terminanti in volute joniche. L’interno è a tre navate. Gli arredi sacri sono stati asportati e trasportati a Santa Filomena. Il soffitto a capriate è stato rifatto di recente. Presenza di tondi fra i pilastri privi degli stucchi originari.
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CHIESA SAN CRISTOFORO Chiesetta di San Cristoforo ai piedi del monte Pomillo Si trova fuori dall’abitato, su una strada che si inerpica per il monte Pomello. Di modeste dimensioni e dalla facciata semplice. L’interno è ad aula con soffitto ad incannicciata a vista, capriate di legno con monaco e rinforzi. Le travi di quercia originali sono un po’ deformate. Vi è anche una piccola conca in granito per l’acqua santa.
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ALTARE DELLA MADONNA DELLA SCALA località Grisuni
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ANTICO PORTALE IN PIAZZA LATTAZZI
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GASTRONOMIA
Le ricette più conosciute ed apprezzate sono: Culumolli; Petole; Crustuli; Sangera; Gagane
Culumolli Si gustano in occasione delle festività Natilizie. Altrove sono chiamate Crispelle o Cullurelli. Si preparano con 5 Kg di farina e 90 g di lievito.
Petole Questi dolci si preparano in occasione delle festività Natalizie con 1 litro di acqua, 1 uovo, un pizzico di sale e l’aggiunta di farina, finché non diventi quasi denso
Crustoli Dolce natalizio ricoperto di miele, occorre un ¼ di olio, ¼ di vino, ¼ di acqua calda, un pizzico di sale, 200g di lievito, 2 kg di farina, un pizzico di garofano e un po' di buccia di mandarino, tritata per dare il giusto aroma. Portare in ebollizione in un pentolino l’olio, il vino e l’ acqua. Disporre sulla spianatoia la farina a fontana e aggiungere lo zucchero, la cannella, i chiodi di garofano, un pizzico di sale e il composto d’olio, vino e acqua. Amalgamare il tutto, facendo attenzione a che la pasta non sia nè dura nè molle. Tagliare a tronchetti 5 o 6 centimetri che, premuti su una superficie di un cistello per realizzare una decorazione, assumeranno la forma di grossi gnocchi. Friggerli in abbondante olio, prima a fuoco forte, per evitare che si sbriciolino, poi gradualmente a fuoco lento. Sciogliere a parte in una padella il miele e tuffarvi i dolci. Disporli sul piatto di portata e lasciare raffreddare completamente prima di servire. ( In alternativa al miele si può usare il vino cotto).
Gagana Prelibato dolce Natalizio. Preparato con 3 kg di farina di grano duro, ½ kg di zucchero, 2 uova, ½ litro di vermut, ½ litro di acqua, ¾ di olio d'oliva, 2 bustine di cannella, 300g di lievito di pane, un pizzico di sale, garofano e buccia di mandarino tritata. Disporre la farina a fontana sulla spianatoia, unire le uova, il vino, lo zucchero e l’olio, precedentemente riscaldati, un pizzico di cannella e i chiodi di garofano. Impastare fino a ottenere un composto omogeneo. Stendere in sfoglia un po’ spessa una parte del composto, che servirà come base del nostro dolce, realizzando più dischi rotondi del diametro del dolce e calcolando tre dita in più per chiudere. Mettili da parte e procedi alla seconda sfoglia che dovrà essere piuttosto sottile. Formare quindi tante strisce larghe, disporle sulla spianatoia e spalmarle d’olio d’oliva, zucchero, buccia d’arancia tagliata a cubetti minuscoli, cannella e garofano in quantità minima. Aggiungere poi nella parte centrale un amalgama di uva passa, noci e mandorle a pezzetti. Sollevare i bordi laterali delle strisce di pasta farcite e arrotolarle in modo da formare una torta costituita da una grossa spirale.
Cuzzupe Dolci che si gustano in occasione della S. Pasqua. Occorrono per ogni 4 uova, un cucchiaio di latte, 250g di zucchero, 5g di ammoniaca, 1 cucchiaio di grasso, 2 bustine di lievito. Disporre la farina a fontana sul tavoliere, mettere le uova al centro e lavorare un po’ il composto. Aggiungere lo zucchero, lo strutto ed infine il lievito. Impastare accuratamente fino a raggiungere un composto omogeneo e facendo in modo che non si formino grumi di farina. Dare la forma desiderata ed infornare a 250°.
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